venerdì 14 giugno 2013

Gesù si è incarnato per andare sulla Croce?

Per rispondere "sì!" a questo quesito basterebbe probabilmente il solo Vangelo, ma - si sa - gli uomini sono tutti dei piccoli San Tommaso (Apostolo) e per credere vogliono continuamente mettere "il dito nel segno dei chiodi", quindi... la tesi è questa: 
Gesù Cristo non è venuto sulla terra (sarebbe meglio dire, si è incarnato) per essere messo in Croce, ma per instaurare il Regno del Padre, che è un regno di amore.
La Croce sarebbe solo una specie di incidente di percorso, un effetto collaterale, qualcosa che, come si è manifestato, poteva anche non manifestarsi. Non solo, qualcuno addirittura aggiunge che Gesù non sarebbe venuto a conoscenza di questo suo tragico epilogo, se non nell’orto del Getsemani.

Partirei proprio da questa ultimo asserzione: tutti e tre i Vangeli sinottici sono concordi nel riportare, non uno, ma tre episodi nei quali Gesù annuncia esplicitamente la sua Passione, Morte e Resurrezione (Mt 16, 21; 17, 22-23; 20, 17-19. Mc 8, 31; 9, 31; 10, 32-34. Lc 9, 22; 9, 43-44; 18, 31-33). È evidente che tutti e tre questi annunci avvengono ben prima dell’agonia del Getsemani.

Pertanto, ammesso e non concesso che Gesù fosse ancora all’oscuro dei modi e dei tempi della sua futura Passione, come si possa affermare che Gesù ne sia venuto a conoscenza solo nel corso di quell’agonia o comunque a ridosso di quella, francamente lo trovo assurdo.

Trovo ancora più assurdo poi che una tale tesi venga propugnata nei libri di teologia, dal momento che le conseguenze della loro diffusione non potrebbero essere meno che nefaste. Purtroppo è proprio così!

Andrebbe poi notato che, anche il Vangelo di Giovanni, nel racconto della Passione, dice: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli […]» e non usa quindi espressioni del tipo “avendo appena realizzato quello che…” oppure “avendo appreso che…”.

Inoltre, dal Concilio di Efeso è verità di Fede che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: due nature distinte unite nella medesima persona. L’unione delle due nature si è compiuta senza che una disturbasse l’altra, ma è ovvio che la natura divina illuminava quella umana. Quindi, in quanto Logos incarnato, Gesù non poteva non conoscere fin nei minimi particolari i disegni del Padre, perché se così fosse la dignità divina di Gesù ne uscirebbe in qualche modo diminuita.

Tanti sono i Padri e i Dottori della Chiesa che hanno parlato e scritto sia del rapporto tra le due nature di Gesù, sia di quella notte di agonia. Ne riporto alcuni:
  • San Leone Magno (Sermone, V): «Sarebbe grave errore credere che Gesù Cristo, con questa preghiera: “Passi da me questo calice”, abbia – per un solo istante – voluto declinare la morte, già da lui accettata fin dal primo istante della sua incarnazione; già da lui perpetuata nell'istituzione dell'eucaristia»; 
  • Sant'Agostino (Trattato CXII, In Gv.): «Gesù Cristo, come figlio di Dio, aveva firmato egli stesso, d'accordo col Padre celeste, il decreto della sua passione e morte. Non poteva, perciò, ricusarla; poiché era l'autore, l'artefice di questo calice amaro»; 
  • San Tommaso (III p., q. XLVI): «Bisogna ricordare che in Gesù Cristo la ripugnanza della volontà umana dalla sua volontà divina, fu ordinata e disposta dalla stessa sua volontà divina. Ora, nel divin Redentore, la volontà umana fu sempre interamente sottomessa alla volontà divina»;
  • San Giovanni Crisostomo (Omelia VII, In epistola agli Efesini): «Con la sua preghiera, Gesù Cristo si manifestò quale egli era, e mise in salvo tutti i suoi privilegi. Si rivelò naturalmente immortale, nel momento stesso in cui si assoggettava alla morte; conservò la sua dignità di figlio di Dio, mentre si sottomise alla condizione dell'uomo; rese al divin Padre il culto che gli era dovuto, perché obbedì per amore, mentre gli parla con la sicurezza e la familiarità di un figlio»;
  • San Leone Magno (Sermone, LVI): «Sebbene il Signore, nel Getsemani, parli il linguaggio della nostra natura, misera, paurosa, tremante, non lo parla però come noi. Egli non parla un linguaggio suo proprio, ma come un linguaggio preso in prestito da noi, come un linguaggio conveniente all'umile personaggio che rappresenta, cioè all'uomo peccatore. Parla come uno di noi, perché parla per noi»;
  • Sant'Agostino: «II Signore, dicendo: “Passi da me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà sia fatta”, dichiara che non è possibile all'uomo salvarsi senza l'amara medicina della morte; senza bere il calice dell'umiliazione e del patimento» (Sermone LXXXI, De temp.). «Gesù Cristo fu come un medico pietoso, il quale, sebbene sano, appressò per primo le labbra alla medicina amara, affinché, sul suo esempio, gli infermi non avessero difficoltà di trangugiarla. Non diciamo, dunque: non ho voglia, non ho forza di bere il calice dei patimenti che Dio mi manda; poiché il nostro Salvatore divino fu il primo a berlo sino alla feccia» (Sermone LXXXVIII, De temp.).
Aggiungerei, che nella più perfetta, sublime e divina obbedienza al Padre, Gesù si è docilmente disteso sulla Croce, facendola così diventare, da orribile strumento di tortura e di morte, la via maestra della consolazione e della vita eterna.

È possibile inoltre vedere una certa causalità tra il periodo storico in cui è avvenuta l’Incarnazione e le “modalità” della Passione stessa: forse è un po’ ardito, ma non credo sia errato pensare che se fosse avvenuta ai nostri giorni, Gesù sarebbe forse stato condannato alla sedia elettrica, all’iniezione letale o all’impiccagione. Come probabilmente sarebbe stato condannato alla ghigliottina se fosse nato tre secoli fa. Scegliendo invece di nascere da donna nel bel mezzo del dominio dell’Impero Romano, Gesù non poteva non essere cosciente dei metodi usati dai pagani invasori della Terra Santa. L’Onniscienza divina di cui godeva non poteva ignorare questo fatto.

In definitiva, dubitare dell’effettiva conoscenza del Figlio sull’epilogo della sua esistenza terrena (il che comporta evidentemente anche il rischio di dubitare della necessità o dei modi del Sacrificio stesso), implica un indebolimento sostanziale della natura divina di Gesù e di conseguenza indebolisce la natura della Santissima Trinità. In una parola, è un’eresia.

Vengo infine alla parte più corposa di questa mia: affermare che Gesù non si è incarnato per salire sulla Croce, comporta il crollo dell’intera teologia della Redenzione e della Salvezza, perché Redenzione e Salvezza non possono esistere senza la Passione e la morte sulla Croce, come viene ampiamente messo in luce dall’estratto di seguito, preso da "La bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”, della benemerita coppia di giornalisti A. Gnocchi e M. Palmaro (pagg. 201-207):
La Croce e il mistero pasquale

[Per comprendere che cosa sia cambiato in questi decenni, bisogna por mente a due correzioni apportate da Benedetto XVI nelle celebrazioni liturgiche papali subito dopo la sua elezione nel 2005. Due evidenti restaurazioni che hanno fatto strillare al tradimento del Concilio: il ripristino della Croce al centro dell'altare e la comunione ricevuta in ginocchio e sulla lingua. Con tale scelta, Benedetto XVI ha messo in evidenza che la crisi liturgica e la crisi dottrinale del mondo cattolico sono state generate e accompagnate dal progressivo oscuramento della Croce.]

Questo fenomeno è dovuto a una teologia che ha assorbito il concetto classico di Redenzione in quello di mistero pasquale. In tal modo, insieme alla nozione di Redenzione, passano in secondo piano la necessità di soddisfare la giustizia divina, la Passione di Gesù e la cooperazione dell'uomo, mentre vengono esaltati l'amore, l'iniziativa di Dio e la nuova vita della Resurrezione. Una delle sintesi più efficaci di questa impostazione si trova nel saggio Qu'est-ce-que le mystère pascal (Cos'è il mistero pasquale) pubblicato nel 1961 da Aimon-Marie Roguet, che poi sarà membro del Consilium per l'attuazione della riforma: «Come un'offesa infinita può essere soddisfatta? Come l'innocente può pagare per il colpevole? È da deplorare che per molti dei nostri contemporanei, la Redenzione si presenti in questi termini. Certi, infatti, ne sono scandalizzati nel loro senso di giustizia e trovano nella Redenzione così presentata un'obiezione insuperabile contro la bontà di Dio. Se fosse veramente Padre, sarebbe un Dio contabile così esigente e trasferirebbe la sua collera sul suo Figlio diletto? Nella presentazione del mistero pasquale, invece, non si incontrano questi scogli. Infatti, in esso la nostra salvezza appare operata da un atto vitale e gratuito, una libera iniziativa di Dio, uscita totalmente dal suo amore misericordioso».
Una nuova concezione di peccato

In questa luce, non avendo più lo scopo di soddisfare la giustizia divina, la Passione e la Croce di Nostro Signore sbiadiscono fino a perdere di senso. Perché soffrire, se è inutile? Ma se la Redenzione è opera di un amore che ignora la giustizia, se è Dio ad andare in cerca dell'uomo senza che l'uomo vada in cerca di Dio, è evidente che cambia la nozione di peccato.

Il ragionamento che sostiene questa tesi parte da una premessa formalmente giusta, ma non sufficiente: come l'omaggio di una creatura nulla aggiunge a Dio, così l'offesa nulla Gli toglie. A corollario di tale teorema si pone in evidenza che il peccato porta pregiudizio solo all'uomo peccatore. La premessa, vera sul piano formale, veicola una volontaria ambiguità perché omette di spiegare che, se il peccato non lede la natura di Dio, lede il suo diritto a essere adorato e obbedito. La teologia classica ha sempre spiegato che il peccato è un'ingiuria all'onore di Dio misurata in base alle esigenze della maestà divina, piuttosto che in base ai danni causati al peccatore stesso. Siccome Dio ha creato tutto per la propria gloria, l'uomo deve ordinare ogni sua azione a tale fine e, ove non lo faccia, si costituisce peccatore e contrae un debito di giustizia.

Secondo la nuova visione teologica, invece, il peccatore porta pregiudizio solo a se stesso e alla società, ma solo indirettamente a Dio. In quest'ottica, come scrisse Emile Mersch in Cristo, l'uomo e l'universo. Prolegomeni alla teologia del Corpo mistico, la Redenzione «non ha lo scopo di restituire qualcosa a Dio, ma di restituire Dio all'uomo».

L'evidente natura antropocentrica di tale prospettiva va contro l'insegnamento di san Paolo, secondo cui il peccato comporta la collera di Dio, che si esprime già su questa terra con delle pene, ma si manifesterà soprattutto nell'ultimo giudizio.
Fenomenologia di un capovolgimento

Dall'affermazione che l'opera redentrice di Cristo ha come scopo la sola rivelazione dell'amore del Padre, conseguono due cambiamenti radicali nella teologia della Redenzione. Il primo consiste nell'attribuire quest'opera più a Dio Padre che a Cristo come uomo. Quest'ultimo diverrebbe solo il "luogo" nel quale Dio salva l'umanità manifestando il proprio amore. Il secondo cambiamento consiste nel trasferimento dell'atto principale della Redenzione dalla morte di Cristo alla sua Resurrezione e Ascensione. «Chi parla di Redenzione – dice Roguet nel suo saggio sul mistero pasquale – pensa anzi tutto alla Passione e poi alla Resurrezione come a un completamento. Chi parla di Pasqua pensa anzi tutto a Cristo resuscitato. La Resurrezione non appare più come un epilogo, ma come un termine e il fine nel quale si riassume il mistero della salvezza».

La sintesi mostra il capovolgimento di orizzonte. La teologia classica, secondo l'insegnamento di san Paolo, non eclissava il ruolo della Resurrezione, ma come spiega Roguet, la subordinava alla Passione e alla Croce. Pochi anni prima del Concilio, nel 1956, papa Pio XII la sintetizzava nell'enciclica Haurietis Aquas:

Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano […] Pertanto il Divin Redentore – nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro – avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l'autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l'assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall'Angelico Dottore in queste parole: «Giova osservare che la liberazione dell'uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l'uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l'uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l'umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo».
Concludendo, certamente era (ed è) volontà di Gesù instaurare il Regno del Padre, che è giustamente un regno d’amore, ma se è vero che «non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13), tale instaurazione non poteva che passare proprio per la Croce, perché solo Gesù, in quanto la più pura tra le vittime, la più innocente, la vittima gradita per eccellenza, poteva offrirsi per redimere l’intera natura umana corrotta dal peccato di Adamo (questo aspetto meriterebbe una più ampia trattazione e non posso far altro che rimandare alla questione XLVI, III parte, della Summa Teologiæ di S. Tommaso che, in estrema sintesi, dimostra come nell’“economia” della Redenzione, non solo fu necessaria l’immolazione del Figlio, ma in particolare anche la sua morte in Croce).

Nessun commento:

Posta un commento